La Civiltà Marinara Picena. Una storia tra pesca e turismo.

Gabriele Cavezzi
(Presidente dell'Istituto di Ricerca delle Fonti per la Storia della Civiltà Marinara Picena di S. Benedetto del Tronto e Direttore della rivista "Cymbas")
email: vizzica@libero.it

Seguendo il volo di Kukan, divinità uccello degli Illiri, una tribù di questi approdò alla foce del Tronto un millennio circa prima dell'era cristiana, percorrendo una rotta già nota ai primi argonauti, attraverso il ponte insulare posto lungo il 43° parallelo. Una rotta tracciata nella memoria riflessa del volatile che si trasmetteva agli uomini che lo veneravano. Non sappiamo se all'arrivo ebbe ad incontrare ostacoli nelle popolazioni locali, ma è certo che sia con i Piceni che con i Romani poi, quella gente vocata ad andare per mare, ebbe rapporti di convivenza pacifica, pur non confondendosi con essi.
Lo storico Plinio, infatti, nel 1° secolo d.C., segnalava che i discendenti di quella tribù, proprio in quel posto dove nel frattempo erano sorti i centri di Truentum e Castro Truentino, rappresentavano l'ultimo reliquato in Italia delle emigrazioni liburniche, eccezionale esempio di integrità etnica, mantenutasi nei secoli e probabilmente alimentata da successive emigrazioni, come quelle che erano avvenute in altri siti lungo la costa.
L'Archeologia ci ha restituito poco di quei primi navigatori ma abbastanza della storia successiva per farci capire il ruolo che essi hanno avuto in questa parte della penisola, dove anche gli approdi del Porto Firmanorum, quello di Cupra, e di Castrum Novum, parlano di un legame costante con il mare, la sponda orientale, le popolazioni mediterranee.
I materiali rinvenuti nei siti sinora esplorati hanno restituito frammenti di ceramica, alcuni dei quali addirittura di origine micenea, pezzi di anfore dagli stilemi ellenizzanti, lapidi funerarie. Una di questa, oggi esposta nell'Antiquario di S. Benedetto del Tronto, ci racconta di un Marcilio quinqueviro truentino, tintore di porpora (purpurario), quindi di un mestiere che richiama l'idea dei Fenici e dei loro traffici.


Più a sud, poco oltre la foce del fiume che porta lo stesso nome dell'antica città, Truentum, il Tronto, nel comune di Martinsicuro, sono stati riportati alla luce edifici e tracciati urbani dell'insediamento portuale, oggi lasciati sotto un terreno agricolo, ma sufficientemente indagati e divulgati nella loro consistenza. Altrettanto è avvenuto per un insediamento poco distante, lungo la Salaria, in prossimità del tracciato autostradale che attraversa Porto d'Ascoli, dove invece è stato scavato un villaggio neolitico, con resti alimentari di molluschi e pesci.
Poco o nulla, invece, risulta studiato nei numerosi ritrovamenti in tutto il territorio prossimo alla costa, se si eccettua la parte compresa nel territorio dell'odierna Cupramarittima, dove sono presenti vestigia di mura e materiali ceramici delle epoche preistoriche e storiche, soprattutto romane, diversi con chiare indicazioni di provenienza mediterranea.
Discendenti ideali degli argonauti che veneravano il culto dell'uccello-divinità, Kukan (poi kukal ed infine cucale, ossia gabbiano), i soci del Circolo dei Sambenedettesi fecero erigere poco più di un decennio addietro, sulla punta del molo sud, difronte alle onde, un monumento simbolo dedicato al più avventuroso di quei navigatori, appunto al gabbiano Jonathan.. Esso è assurto a simbolo della città erede dei Liburni, divenuto meta di numerosi turisti ma anche di concittadini che vanno a riconoscersi in quelle forme protese in volo verso l'orizzonte, che l'artista Lupo volle immortalare dentro un cerchio, il cerchio che racchiude i destini delle partenze e dei ritorni.
Lungo questi itinerari costieri si vedranno passare le truppe di Pompeo che presiede Fermo ed il suo navale, nella guerra sociale, soprattutto contro Ascoli; quindi le legioni di Cesare che frettolosamente rientrano a Roma per riprendere in mano le sorti dello stato. La centuriazione augustea, infine, trasferisce anche qui la "pax" che vi regnerà sovrana per oltre quattro secoli.


Giunge poi la tempesta dei barbari ma assai più cruda la guerra tra Goti e Bizantini, a sconvolgere queste contrade per oltre mezzo secolo, a desolarle con i saccheggi e le spaventose carestie.
L'ultimo accenno a Truentum ci perviene dal suo vescovo Vitale che nel 483 è inviato a Costantinopoli dal Papa Felice III, insieme a Miseno vescovo di Cuma, a tentare una conciliazione con l'imperatore Zenone ed il vescovo Acacio, protagonisti di un scisma che sta spaccando la cristianità. L'arrendevolezza alle lusighe dei costumi della corte orientale e forse anche la corruzione operata col denaro rispediscono privi di qualsiasi risultato i due ambasciatori che verranno per questo scomunicati e privati delle loro prerogative.
La storia scorre su queste rive con il ritmo delle vicende che si maturano altrove, soprattutto nelle due città-stato di Ascoli e Fermo, nei comuni ad essi soggetti, alcuni dei quali si affacciano dalle colline sovrastanti, cinte di mura e guardate da torri contro i "rumori dei turchi". Ma le due capitali picene non rinunciano ad avere un loro proprio porto, cosa che da sempre è stato consentito a Fermo e che per Ascoli rappresenta invece un'intollerabile menomazione alle aspirazioni di apertura verso il mare.


Fermo, dopo la caduta di Federico II e la definitiva scomparsa degli Svevi, riprenderà il legame antico con le città del mare e soprattutto con Venezia, alla quale si onora di offrire uomini per il governo lungo la sponda dalmata ma dalla quale ha la qualificante presenza di podestà che a diverse riprese reggeranno le sorti del comune del Girfalco. Uno di questi, Raniero Zeno - poi diventato doge - inizierà i lavori di riattamento del porto i cui resti insistono ancora nel perimetro del vecchio incasato di Porto San Giorgio.
Ascoli, al contrario, dovrà attendere l'ultimo scorsio del XIV secolo per avere il suo porto, dopo la concessione fatta da Federico II del tratto di costa tra il Ragnola ed il Tronto. Ma sarà una conquista effimera, contrastata fortemente da Fermo e con minor ininfluenza nella storia della marineria picena, seppure determinante come area di confine tra lo Stato della Chiesa ed il Regno di Napoli, per i traffici ed i contrabbandi, i banditismi, le fughe, gli attraversamenti di eserciti e di pellegrini.
In questo spazio, sovrastato dalla torre reliquata del porto ascolano, giungeranno nel XVI secolo alcune famiglie romagnole per esercitare la pesca nel mare antistante e nella "pantiera" il lago di acqua dolce che darà luogo poi alla Sentina, area umida deputata alla caccia ed all'agricoltura. Nel mare antistante verranno anche i pescatori sambenedettesi che si spingeranno sin nel cuore dell'Adriatico Abruzzese, dove i regnicoli hanno il divieto di costruire lungo la costa e quindi non praticano l'attività alieutica.
Il traffico tra i due stati riguarda le ceramiche dei Castelli che vengono veicolate nella Marca e verso la fiera di Senigallia ma soprattutto i cereali che raggiungono tramite il Piceno città lontane; e dalle contrade a nord giungono prodotti delle più diverse manifatture picene o altri generi provenienti dalla Toscana o dalla Romagna, introdotte quasi sempre per la via di mare.


Il Santuario di Loreto fa da "porto franco" per la spiritualità profonda delle popolazioni dei due stati e già verso la seconda metà del XVII secolo si pratica un percorso viario costiero che conduce a quell'approdo dell'anima e che prenderà appunto il nome di "Strada Lauretana". Lungo questo itinerario, con l'aprirsi delle mura e delle porte medioevali dei castelli rivieraschi, nasceranno gli insediamenti più prossimi alla spiaggia, intorno agli antichi approdi, presso i magazzeni per le derrate che viaggiano per mare, gli scali rudimentali, le capanne di rimessa degli attrezzi per i pescatori.
Porto Sant'Elpidio, Porto San Giorgio, Torre di Palme, Pedaso, Marano, Sant'Andrea, Grottammare, San Benedetto, in breve raggiungeranno dimensioni significative per abitazioni ed attività marinare, costituendo per secoli quella "portualità diffusa" che sarà concorrenziale ad Ancona e che da questa sarà di volta in volta ostacolata con provvedimenti restrittivi.
Soprattutto il Porto San Giorgio e Grottammare sembrano primeggiare, sotto la spinta anche della grande diaspora del XV secolo che vede l'esodo delle popolazioni sclavone ed albanesi, un esodo che continua sino alle soglie del XX secolo. Grottammare che vanta attività anche nel periodo alto- medievale insieme a Marano convoglia verso Venezia ed altri siti dell'Italia settentrionale i frutti straordinari dei giardini decantati da scrittori e viaggiatori: gli aranci ed i limoni che vi maturano abbondanti.
Gli agrumi rappresentano una benedizione del clima particolare che assiste il tratto di costa del Piceno meridionale, e lo Stato della Chiesa proprio attraverso queste coltivazioni, uniche in tutto l'Adriatico occidentale, può contare su esportazioni importanti.
Va detto che nel frattempo un altro miracolo assiste le popolazioni di queste contrade, ed è quello del formarsi di nuovi spazi costieri, derivati dall'accumulo di apporti fluviali, "i relitti del mare", sempre più abbondanti, conquistati dal lavoro di imbrigliatura dei numerosi torrenti che scavano i contrafforti collinari, e dalla messa a coltura di essi man mano che vengono formandosi.
Uno spazio costiero che allarga gli orizzonti abitativi, che consente la costruzione di cantieri e di altri opifici per i lavori succedanei alla navigazione ed alla pesca, che attrae le prime attenzioni di quanti guardano al mare ed alle sue coste non più come frontiera fomite di rischi, di invasioni e di epidemie, di incursione barbaresche, ma come luoghi di un soggiorno ameno ed igienicamente privilegiato.
Il passaggio dal rapporto totalizzante con il mare come mezzo di comunicazione e di relazione si interrompe nel 1863 quando viene realizzata la ferrovia, ma questa circostanza incrementa le opportunità per masse sempre più consistenti di viaggiatori che possono fruire della nuova conquista: il mare come momento di ristoro.
Nel frattempo la pesca raggiunge vette straordinarie di impiego umano e di produzione, rimanendo fuori dal processo di declino del trasporto merci e persone con il mezzo della barca. S. Benedetto che ha scelto questo strada di specializzazione in anticipo, continua verso la conquista di mercati sempre più ampi. Non dimentichiamo che nello Stato Pontificio "ab immemorabili" era previsto il rispetto rigoroso dei "dies carniprive", ossia dei giorni di astinenza dalle carni. Giorni numerosi nell'arco dell'anno e che quindi costringevano i sudditi papalini, in mancanza di pesce fresco, al consumo di quello seccato e salato, con ciò sostenendo l'importazione da paesi stranieri, soprattutto dalle isole dalmate.
La pesca, quindi, come dimensioni totalizzante le attività sul mare e nei mestieri succedanei lungo la costa, nei cantieri per la costruzione ed il calafataggio delle barche, negli spazi conquistati con il ritirarsi del mare ed utilizzati per filare gli spaghi e le funi, nelle case dove le donne realizzano reti e tessono stoffe per le vele, e da dove si parte per commerciare quei prodotti, ma soprattutto il pesce, giungendo con i carretti sino nell'Umbria, in Lazio, in Abruzzo.
La pesca come scelta ineluttabile per la sopravvivenza, a prezzo di fatiche immani e di tragedie, di catture piratesche, di rotte adriatiche e quindi del Mondo, alla ricerca di nuovi spazi, di nuove esperienze da vivere e da raccontare.
Quando Monsignor Peretti, il futuro Papa Sisto V, diventa nel 1567 vescovo di S. Agata dei Goti, i suoi concittadini grottesi gli inviano ostriche e pesce fresco, quale tangibile e prezioso segno della loro gioia e della loro devozione. Il pesce fresco, infatti, è un elemento prezioso dell'economia dello Stato e soggiace a rigorose normative; spesso è assunto come elemento di alta qualificazione nelle mense e nei convivi dati per personalità illustri.
La crescita del pescato, pertanto, e la sua commercializzazione, vengono viste come una benedizione per l'economia della nazione, anche quando alla Chiesa si sostituirà lo Stato Unitario.
Alla fine del XX secolo, comunque, su queste spiagge, si assiste alla graduale affermazione di due attività: quella dell'accoglienza e della pesca.
La prima, invero, oltre alle sporadiche presenze elitarie, era stata largamente sperimentata soprattutto nella forma militare, con il travagliato periodo Francese, i fatti del 1848-49, del 1860 e successivi. Le truppe, negli spostamenti logistici per quegli eventi, transitavano obbligatoriamente lungo la linea costiera, con le loro salmerie o con le barche, e sostavano nei luoghi di migliore accoglienza. Se la bassa forza veniva alloggiata nei conventi e nelle chiese, talvolta sistemata all'addiaccio tra le dune della spiaggia, gli ufficiali trovavano ospitalità nelle case delle famiglie patrizie. Qui spesso la sosta si protraeva per mesi ed inevitabilmente si allacciavano rapporti molto più profondi della banale forzata ospitalità.
Praticamente la popolazione locale raddoppiava ed essa doveva far fronte a problemi di sussistenza ed a tutte le prassi della quotidianità di quegli ospiti. Ciò ha fortemente contribuito alla formazione di una mentalità tollerante, cosmopolita ed aperta, in quanto quelle presenze non mancavano di apprezzare il luogo anche dal punto di vista del rapporto con il clima e l'ambiente.
A queste esperienze se ne aggiunsero di altre, più specifiche, legate a soggiorni importanti, di figure dell'arte e dell'economia, delle gerarchie ecclesiastiche e della politica, che qui è superfluo ricordare in quanto la letteratura locale ne fa menzione per ogni epoca ed ogni paese.
Essa si realizza più compiutamente nelle forme legate al turismo balneare che amplia il concetto di soggiorno climatico e che trova appunto la sua svolta negli ultimi decenni del secolo scorso.
La seconda attività, invece, diventa ragione di sempre più forte specializzazione e quindi di conquiste di nuovi tecniche di pesca, di spazi per mare, di mercati, non solo nel pescato, ma anche nei prodotti di supporto alla pesca, principalmente nei manufatti della canapa che assegnano a S. Benedetto un primato mediterraneo per quasi un secolo.
Ma lo spazio topografico è quello di una fascia che non supera complessivamente i trenta chilometri e solo in alcuni tratti di esso è possibile realizzare entrambi le vocazioni con profitto, per cui dove queste risultano più redditizie, lì nasce il conflitto.
Il turismo man mano conquista l'immaginario ma anche le convenienze degli operatori locali e degli amministratori, incoraggiati da presenze sempre più qualificate che provengono dalle grandi città e che portano, oltre alla ricchezza, ragioni di progresso e di emancipazione.
Famiglie di rango, locali o forestiere, scelgono prima le colline prospicienti il mare, quindi i tratti di costa per costruire residenze di prestigio, dove trascorrono buona parte dell'anno, dove invitano ed ospitano altri visitatori. Si costruiscono gli stabilimenti balneari, si attrezzano spazi di verde, pinete, passeggiate a mare, locali di ritrovo e tutto questo cozza con il bisogno dei pescatori di avere a disposizione lo spazio per riattare le reti, per alare le barche, per effettuarne le riparazioni ed il rimessaggio, attività che tra l'altro producono rumore, talvolta fumo, quasi sempre il "cattivo"odore del catrame e del pescato.
Non di rado debbono intervenire le autorità per sanare questi conflitti ed infine, verso il termine degli anni 50' di questo secolo, la separazione tra i due universi diventa definitiva anche dal punto di vista urbanistico, dove i paesi, così integrati, conservano molti segni di quel divenire da borghi marinari a centri di turismo balneare.


Ciò assume toni fortemente conflittuali a S. Benedetto, dove la pesca ed il turismo non riescono inizialmente a convivere, ma dove, gradualmente, il passaggio di molti addetti alle attività sul mare si riversano nell'altra fonte di reddito, trasformando i "lancettieri" e gli "sciabicotti", i funai e le "retare" in bagnini, in albergatori, in ristoratori, in commercianti, in un nuovo amalgama di serena convivenza, dove il pesce diventa ragione ulteriore di caratterizzazione per la gastronomia finalizzata al turismo.
Contribuiscono a moltiplicare l'effetto di queste suggestioni le presenze di artisti che scrivono, suonano e soprattutto dipingono dei paesaggi che li incatenano a questo territorio, diffondendo ovunque la fama della costa del Piceno, affidando al colore delle vele ed al brulicare della vita intorno ad esse i messaggi di promozione delle loro opere e del mondo da dove queste sono state tratte. Anche la fotografia, con la sua immediatezza ed il fascino che attraversa molti strumenti dell'informazione, concorre a far viaggiare la "scoperta" di questi luoghi e di questa gente dedita ai mestieri duri sul mare, a diffondere l'idea di un esotico nazionale da convivere almeno per una stagione.
Il verde caratteristico degli aranceti cede in parte e gradualmente lo scenario ai pini e quindi agli oleandri ed alle palme, in un tripudio di cui oggi verifichiamo la suggestiva bellezza tutta mediterranea, ammannita nelle diverse forme ed essenze, in una quantità di elementi che non ha pari in Europa e forse in altre luoghi turistici del mondo.
Quando le vele hanno ceduto ai motori e questi si sono smarriti nei mari del mondo, quando tutto il lavoro sul mare sembrava avere un tramonto, ecco ancora più prepotente riprendere la voglia di questo elemento, nella piccola pesca e nella pesca sportiva, nelle pratiche dello sport velico, nel diportismo nautico, nella corsa alle sue spiagge, a godere delle sue albe e dei suoi tramonti, a propiziarsi nei riti delle onde, della salsedine e del vento che culla i gabbiani all'orizzonte, gli stessi che guidarono i primi navigatori su queste sponde.


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